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Ibridum

 

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Dragon%20Centauro-105626_800 [Image DeviantArt]

Su’hadr
Ibridum dum asper parventis atque mirabilis.
Furono queste le parole che udii pronunciare da Camelio mentre ancora mi allontanavo. Il tono cupo e vaticinante. La barca solcava incerta la corrente del fiume ed io lo guardavo: in piedi sulla riva, i lunghi capelli mossi dal vento gelido. Riuscivo a vedere il suo zoccolo raspare nervoso la roccia scabra ed i suoi occhi duri e fissi su di me. Non pretendevo il suo perdono per l’addio, ma sapevo la sua comprensione. Non potevo sottrarmi alla mia responsabilità. Il compito andava portato a termine, e quello era il mio compito.
La barca che mi portava aveva raggiunto la riva mancina e Camelio era ormai una figura indistinta che si andava perdendo nei labirinti della mia mente. Lo immaginai voltarsi sbattendo irritato la coda, quindi allontanarsi, lasciando orme profonde sul sentiero fangoso.

Camelio
Camelio volta la schiena fiera al fiume e torna da solo sui suoi passi. La coda sbatte nervosa mentre lo zoccolo con forza calca il fango. Ha lasciato Su’hadr al suo destino, o almeno così vorrebbe poter credere, ma ben sa che il meccanismo si è innescato: lo porterà di nuovo a percorrere il sentiero che lo vide giovane e avventato. Ma per ora procede tranquillo, quasi rassegnato, lungo il fianco della collina. Più avanti un macchia di alberi, gli ultimi prima che il sentiero si inerpichi sulla montagna. Sa che il cammino sarà lungo, almeno tre giorni, sempre ammesso che le nubi che si avvicinano da Nord Ovest non liberino il loro carico di neve bloccando il passo, e obbligandolo così a scegliere la strada che aggira la montagna ad una quota ben più bassa, e che porterebbe via molto più giorni.
Con occhi cupi guarda le cime scomparire nelle nuvole Camelio, il suo fiato si fa bianco appena uscito dalla bocca. I lunghi capelli gli ricadono scomposti sulle spalle e mentre scrolla la testa pensieroso, i piccoli monili che trattengono le trecce che ne ornano la chioma risuonano. Come avrebbe voluto definitivamente sciogliere quelle trecce! ma in ognuna è intessuto un gesto di magia o un premio di onore. Il passato non si può cancellare, e, mentre quello degli uomini può cadere nell’oblio, il suo è destinato ad essere sempre vivo. Il suo cuore, i suoi occhi contengono ogni singolo attimo che lui ha respirato. La prima volta che vide il sole, così lontano da qui, sull’altopiano erboso e caldo. La guida sicura di suo padre e l’amore di suo madre. Le corse con i fratelli, con il branco selvaggio. La via e l’educazione che inevitabilmente fu scelta per lui.

 

LUNA

Immagine 
[Picture wife]

Il vento notturno carezza le mura del castello senza paura, imprendibile, inarrestabile, invisibile. Attraverso ogni pertugio o fessura si insinua gelido nella stanza, come lama d’acqua ghiacciata, ad ogni nuova folata. Gli scricchiolii del legno sembrano gemiti di un’anima insepolta. Uno schiocco di fuori, giù da basso, lo spezzarsi di un ramo. Al piano di sotto, nella grande sala, l’ululare dell’aria nel camino e polvere di cenere. Il cielo è limpido, le nubi di un tardo novembre spazzate via. La prima neve ghiacciata mulina sull’acciottolato.

La giovine non può resistere al richiamo. Scende scalza dal letto, si avvolge in una coperta e si accosta alla finestra a sesto acuto che incornicia la luna piena. Due seduzioni a confronto, l’astro nel suo splendore e l’innocenza pallida degli occhi della ragazza. Piedi nudi sulla nuda pietra. Piedi freddi e morbidi sulla pietra fredda e dura. Si fissano per un tempo indicibile, poi, come stregata, la giovine si avventura là fuori, sul tetto, offrendosi, pura, alla benedizione dell’astro notturno, la carezza della Dea.

Come rapita in un’estasi a lei del tutto nuova, non si accorge del freddo della notte. Non si accorge del vento che le si attorciglia lungo le gambe avvolgendo il suo corpo in un unico abbraccio, non si accorge nemmeno dei brividi che la fanno tremare, nuda sotto la coperta. Soltanto, ad un certo punto, senza una ragione, porta in alto una mano, e afferra la Luna fra pollice e indice, quasi a volerla staccare dal cielo.

Sorridente e soddisfatta rientra poi nella camera, e prima di coricarsi, poggia vicino al letto una moneta d’argento. Fuori ora il buio è assoluto, non si scorge più nulla nel cielo, sul comodino una moneta a forma di Luna.

Era un Uomo

Floodlight Era un uomo alto e scarno, evitato da tutti. Le mamme lo evocavano minacciose per far star bravi i bambini, come se fosse “l’uomo nero”. Viveva fuori dal paese, ai bordi del bosco. Usciva all’imbrunire con un vecchio lungo bastone, un cappellaccio ed un tabarro sulle spalle ossute. Non si sa da dove venisse né di che cosa vivesse. La mattina di Pasqua scese in paese e, mentre tutti erano a messa, le porte della chiesa si spalancarono e la sua figura proiettò una lunga ombra sulla navata centrale, fin quasi a sfiorare i gradini dell’altare. Le mamme avvolsero subito i bimbi nel loro abbraccio, a proteggerli da quella sinistra creatura. Sussurri di sdegno si levarono dai banchi laterali. L’uomo si trattenne dapprima in fondo rimirando l’Altissimo, incerto, quasi intimorito. Poi avanzò lentamente imbarazzato, quasi temendo una sua inadeguatezza al luogo sacro. Quando poi un raggio di sole filtrò da una finestra in alto, un gioco di vetri e colori a rappresentare una colomba bianca in volo, e, attraversando tutta la chiesa, andò a lambire i suoi piedi, allora capì. Si tolse il cappellaccio, lo appese al raggio di sole, avanzò fiero verso il prete, ed infine si comunicò.

[Liberamente ispirato ad un racconto della Valchiusella]

Il Biglietto

Mauritania / Nouakchott 17-03-2013

international-flights

walk-airplane

Dentro l’aeroporto entra solo chi deve partire, gli altri fuori. Poi dentro trovi una bolgia infernale data solo da autoctoni altramente autorizzati.
Il primo controllo passaporto + biglietto è all’entrata. Non faccio 10 metri che già il mio passaporto è passato in tre paia di mani diverse. La mia foto l’hanno vista bene e corrispondo, sono sempre io. Nessuno però si è curato che al metal detector ho fatto suonare la marcia di Radetzky.
Check in. Poi un altro controllo passaporto + biglietto. E siamo a quota 5.
Metal detector. Un po’ più serio stavolta: il metal detector suona, lui mi guarda, io passo.
Sala d’attesa. Qui non ho bisogno di sapere il gate d’imbarco. C’è una sola porta d’uscita, piccola, poi da lì a piedi, verso l’aereo.
Nel frattempo mi sono perso il compagno di viaggio. Avrebbe dovuto volare con me fino a Casablanca, poi ognuno per la sua strada nel cielo verso casa. – Saprò più tardi che la sua prenotazione era non si sa come scaduta.
Non ci sono cartelli luminosi per le partenze, non chiamano il volo con l’altoparlante. C’è solo un volo per volta. Arriva l’omino al banco davanti alla porta e tutti ci fiondiamo lì in coda.
Controllo biglietto. Lo passa sul lettore codice a barre. Non funziona. Lo rigira e o ripassa. Non funziona. Mi guarda. Confronta il nome sul biglietto con la mia faccia: non c’è la foto sul biglietto! Che guardi? Sorrido. Alliscia il biglietto. Lo ripassa. Non funziona. Sorride dubbioso. Firma il biglietto. Ok puoi passare. Evviva! Attraverso la porta. Otto metri e stop. Sono sulla pista. Controllo biglietto. Ancora! Tutto bene. Attraverso la pista. Prima guardo a sinistra e a destra, ovvio. Poi attraverso. Sono ai piedi della scaletta. Stop. Controllo biglietto. Sì bene Sali pure. Salgo. Vestibolo dell’aereo. Le due hostess sorridono. Salam Salam. Bonjour Bonjour. Biglietto. Oui 14D très bien. Bonjour. Bonvoyage.

Shadow – Where Do We Draw The Line

gro So, tell me where do we draw the line.

E’ così tutto simile ora non cambia nulla tra bene e male tra chi vince e chi perde ora che non c’è più nulla per cui lottare ora che lei è persa andata ed io ho anche cessato di respirare il suo nome. Ora che questa terra non ci nutre più come posso separare il bene dal male quando entrambi nascono dalle macerie ed hanno lo stesso fine che si chiama sopravvivenza? ora qua fuori respiriamo quest’aria che ci uccide tutti e ci trasforma in esseri privi di cuore privi di anima.

Where’s the cooling wind Where’s the evergreen field Where’s my mother’s open arms Where’s my father Lionheart

I’m lackland and restless, vago nella notte. Solo. Trascinando i piedi. Come posso tracciare una linea e separare i buoni dai cattivi e per che cosa poi per ristabilire il passato? No! posso solo andare avanti confondendomi con le ombre. Ma il passato ha un grande potere e mi raggiungerà scovando il mio rifugio pretendendo il mio presente pretendendo quello che resta della mia anima. Io sono ciò che sono e non posso sfuggire a me stesso, ripararmi nell’ombra e tacere. Ci provo, ci ho provato. Ma so che non è possibile.

What does tomorrow want with me What does it matter what I see If I can’t choose my own design Tell me where do we draw the line

No! non potrò mai scegliere il mio cammino fino a che non porterò a termine il mio compito solo allora potrò andare o scegliere di rimanere. E se anche uno solo ne potrò salvare forse qualcosa potrò riscattare. Forse lei non tornera’ mai ma anche per questo io combattero’ perche’ nonostante questa cenere che tutto corrode io sono vivo io sono qui.

Whatever tomorrow wants from me At least I’m here, at least I’m free Free to choose to see the signs This is my line.

Autorizzazione in corso

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Autorizzazione in corso. Finalmente in orbita. L’attracco non è attrezzato. La forma non è adatta. Il contenuto è relativo. I vestiti dell’Imperatore sono nuovi ed io preferisco i miei. I miei soliti. Quelli che non riesco a dismettere. Il mare porta le onde che rimescolano la sabbia sulla riva. Il mare porta anche le meduse. Il mare porta i pesci che mangi nel piatto la sera. Chissà se mi guardi. Chissà se ti guardo. Forse guardiamo solo la TV. Ho scoperto che qui il sorriso non consente aperture e l’abbraccio non è fratello del riposo. La sabbia del deserto mi è entrata dentro, mi graffia e mi vivifica. Quando la soffi via io prendo il volo con lei.
Codice non adeguato. Non abbiamo attracco disponibile per voi. Station Planet Earth, We’re Closing Down. Station Planet Earth Transmission Ends. Tuut tuut zzzz. …… bzzzzz

Shadow – Sparkling Angel

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[Immagine da Weird Tales Magazine]

La nebbia mi avvolge gli stivali. A stento vedo i miei piedi evitare le buche lasciate dal porfido sconnesso. Un piccolo agglomerato di edifici ormai abbandonati. La base ancora in piedi della ciminiera di un cementificio. L’insegna di un locale caduta in pezzi lascia ancora leggere “Sparkling Angel”. Frammento di un passato che ancora cerca di essere presente. La promessa di un finto paradiso al di là della soglia. Sulla porta che non si chiude un riflesso purpureo riecheggia gli occhi di una ballerina di quando il tempo era diverso: paillettes colorate e gambe lunghe. Curve sinuose ad ubriacare gli sprovveduti avventori attratti dalla sua sensualità in vendita. Ora ciò che rimane è una scarpa rossa con tacco dieci, un po’ ammaccata e ricoperta di polvere in un angolo del palco. Della barra della lapdance non rimane che un tubo contorto e anche gli specchi non rimandano più le curve seducenti di ragazzi discinte. I tavolini sono fracassati a terra, le sedie sparse, frammenti di vetro e lampade rotte. I divanetti rosicchiati dai topi, ultimi clienti non paganti di questo rifugio di anime perse. Anche Sam ha smesso di suonare il pianoforte.

La polvere galleggia nell’aria e la rende irrespirabile. Il passato non può sopravvivere. Riattraverso la porta che mi rigetta nell’unico presente che ci è concesso. Fuori l’aria è acida e sa di acciaio. La nebbia che mi entra nei polmoni ha intossicato uomini più forti di me. Non importa. Io sono immune. Sono immune a qualsiasi agente patogeno. Sono immune alla vita stessa. Inevitabilmente. Scivola su di me come acqua su cera. Se non ci fosse il ricordo nemmeno saprei di essere qui. Dovrei farmi ancora ingannare dal bagliore dei cristalli della pazzia? Ne ho visti tanti nella notte, li ho visti brillare negli occhi di lei mentre guardava la Luna. Mi regalò le sue labbra, le sue dita le sento ancora sulla pelle del viso, le sue unghie graffiare la mia schiena. E vedo ancora le sue spalle coperte da quella leggera veste bianca allontanarsi. Era scalza. Non si voltò mai, nessun ultimo sguardo nessun addio. Sparì nella nebbia. L’acqua la inghiottì. Ciò che udii per ultimo fu uno sbattere d’ali, ed era già mattino. Non so se fu un angelo o un cigno levato in volo. La luce del primo mattino aveva già rubato la poesia.

Ripensandoci ora, non ho dimestichezza di ali bianche che mi siano benefiche. Conosco i corvi con cui Odino spia l’umanità, conosco i ciechi fratelli alati della notte, che con i loro strilli trovano la via di casa. Conosco la nera volta del cielo notturno, quando nemmeno le stelle osano mostrarsi, per timore o per rispetto del silenzio. Conosco la lama fredda che è il respiro della Notte, la sua stessa anima. Una lama che ho usato come arma e che muore conficcata dentro di me. Per essere padrone delle proprie armi bisogna conoscerle, bisogna essere almeno una volta morti per esse. Ed io sono morto. E dalle mie ceneri mi sono riformato e sono ritornato a camminare su questa terra violentata. E le mie ossa han preso tante botte. E ho vinto e perso dentro tante lotte.

Forse sono ancora morto e non lo so ammettere. Un morto che cammina e si confonde con questa progenie di Caino. Basterebbe uscire nel Sole e cercare la mia ombra distesa nella canicola. Ma io vivo nel riparo che non ha fratello. Io sono un’ombra che scivola lungo i muri. Avessi un riflesso lo spenderei dentro un vecchio vetro rotto, oppure in una pozzanghera oleosa che rimanda il profilo delle cose tingendole di colori irridescenti e meravigliosi.

 

 

Ali di PieTra

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Se avessi ali di pietra, il mio volo mi porterebbe in un sogno lungo le cui strade si ammassano statue di eroi caduti e dimenticati.
Nubi viola graverebbero sulla terra appese ad un cielo grigio liscio come madreperla dai riflessi oleosi e cangianti.
Il vento poi porterebbe eco lontane di corvi, occhi sulla Terra di un antico dio orgoglioso ed egoista, ultimo abitante spaesato di un Valhöll ormai lontano.
Se avessi ali di pietra anche io mi aggirerei silente, pietra fra le pietre, e dal particolare di un volto o da un gesto spezzato riconoscerei amici perduti o rivali persi nell’oblio di un tempo che si disgrega.
Pochi siamo rimasti a testimonianza del tempo glorioso in cui la mano distesa plasmava una realtà ancora giovane dandole forma. Ora i pochi che restano tacciono impotenti intrappolati ognuno in un sogno diverso.

Shadow – Pasto nudo

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[Image Weird Tales Magazine]

Quella notte ero stanco. Stanco dentro. Stanco di aspettare di tacere di lasciarmi scivolare addosso la pioggia gelida. Stanco di questa non vita fatta di sassi aguzzi su cui camminare scalzi. Stanco di questa esistenza infinita in cui tutte le ferite sanguinano e poi si rimarginano, e ce n’è una che continua a sanguinare dentro. E poi quel senso di mancanza di non adempienza. Sapere che manca sempre qualcosa al mio quadro. Essere venuto meno al mio compito e vagare ora in cerca del rimedio.
Sentivo dentro la rabbia farsi possente. La stella rossa che porto profonda nella mia carne, come un marchio a fuoco che mi segna per l’esistenza, pulsava con violenza quasi dolorosa. Scesi nel vicolo e camminai ben in vista, scostando le macerie. Occhi bianchi mi spiavano dall’oscurità. Sentivo il loro sguardo viscido strisciare sulla mia schiena. Poi un lampione sghembo d’improvviso decise di morire e l’oscurità avvolse un tratto di strada. Non avevo mai creduto nel caso. Fu lì che due figure deformi si materializzarono delineandosi appena nella polvere sospesa nell’aria. Umane solo nel ricordo. Denti e artigli nessuna armonia nel gesto o intelligenza nello sguardo. Ciò che vedevo era il malefico istinto bestiale della caccia e della sopravvivenza. Avanzarono d’un balzo, ululando, ed uscirono insieme dall’ombra. Fu un attimo ed un turbinare improvviso di acciaio sangue polvere e digrignare di denti. La mia spada affondò rapida passando dalla notte alle loro membra. Spezzando e tranciando. Poi fu di nuovo il nulla. Aria immota e polvere acida che si deponeva lenta sul frutto del macello.
Anche io tornai nella notte dopo il pasto nudo, nel buio, la mia ombra di nuovo si confuse con altre ombre. La stella rossa era tornata calma nella mia carne, la stella bianca nella mano destra splendeva immacolata.

Shadow – Guardiano

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[Immagine web, editing FaRiv]

Il tempo non aveva significato. Esseri la cui presenza, ancorché la loro stessa evoluzione, era ignota agli umani, avevano trovato riparo sul pianeta in tempi così remoti da fondersi col mito della creazione stesso. In una strana forma di stasi, in luoghi riparati e sconosciuti, si limitavano ad esistere, in attesa di tempi più propizi per rivelarsi e reclamare quanto di loro pertinenza.
Forse Noi, che nei tempi antichi ne fummo decretati custodi, li tradimmo, o semplicemente li abbandonammo. Non fu per codardia o negligenza. Fu l’evolversi degli eventi, che, passando di distruzione in distruzione, di guerra in guerra, ci portò lontano, e rimanemmo incastrati nelle umane piccolezze. Molti di noi perirono, altri, tristemente, si lasciarono portar via dalla marea degli eventi. In pochi ormai resistiamo. A volte vagando avverto la presenza di un mio simile, un altro Guardiano, e questo è reciproco. Tuttavia non ci cerchiamo e, se possibile, ci evitiamo. Per altro poi, son altri i nostri non dissimili, color che vagano come nere presenze in questa terra riarsa, che risvegliano un prurito vago alla base del collo. Ed è allora che la stella rossa che porto incisa in me comincia a pulsare ed il mio istinto di cacciatore prende il sopravvento. Anche se lontano nel tempo, fui creato per proteggere e distruggere. Questa è la mia duplice natura che come un arma affilata si armonizza per annientare la minaccia. Questo sarò sempre, anche se nella notte cerco riparo … riparo da me stesso.