Anche il Silenzio si fece Attento

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Per primo venne il silenzio, e si dissetò alle acque immobili sepolte nella nebbia e nella notte. Piccole increspature sulla superficie ogni volta che sfiorava l’acqua. Poi si trattenne. Non è dato sapere quanto tempo intercorse. Dopo venne una piccola luce, poco di più del bagliore intermittente ed effimero di una lucciola. Fece una piccola danza, come a propiziare un nuovo giorno o il raccolto estivo, e si dileguò. Ma non vi fu il buio. Una luce soffusa omogenea permeava tutte le cose di un chiarore inverosimile. La nebbia nascondeva i contorni e nulla pareva veramente solido. Ad un certo punto vi fu un sasso che cadde nello stagno, generando cerchi di movimento che vennero ad infrangersi a riva. Quindi tornò la calma. Lungo fu il tempo ovattato che passò indisturbato. Uno scalpiccio affrettato sulla riva opposta ed un frusciare di vesti di donna, l’unico accenno che fu possibile scorgere fu un riflesso porpora che comparì e sparì d’un tratto. Il fragore di un sospiro trasmesso dall’aria umida lo accompagnò. Quando l’acqua cominciò a ribollire, anche il silenzio si fece attento. Ne sorse un drago rosso che si erse in tutta la sua magnifica e terribile maestà. Sull’altra sponda, egualmente possente e spaventoso, si levò un drago bianco. Si guardarono a lungo emettendo fuoco con il loro fiato, poi si vennero incontro ed attaccarono feroce battaglia. Il drago bianco serrò le mascelle sul collo di quello rosso, trapassandone le scaglie con le zanne acuminate. Tenendolo in quel modo, distese le ali e lo portò via con sé, a continuar battaglia in altro loco. Quando anche l’ultimo riverbero del loro fuoco fu perso nel cielo grigio, tornò a calare la nebbia e lo stagno ridivenne silenzioso. Decisamente lungo fu questa volta il tempo, e lento il suo trascorrere. Così lento che nessuno avrebbe potuto definire una misura per stabilirne il quanto, nessuno se lì ci fosse stato qualcuno a poterlo fare intendo dire. Ma nessuno comunque era lì, in quel luogo prima del tempo. Poi d’improvviso, senza alcun segno premonitore, cominciò a piovere. Quella pioggia fine e lenta, che fredda penetra fin dentro alle ossa.

Ora non si sa se poi smise di piovere, se la nebbia si dissipò, se finalmente sorse una qualche forma di sole o che cos’altro. In verità non si sa nemmeno se gli accadimenti or ora esposti siano veri o appartengano alla sfera del mito e della leggenda. Se l’ordine in cui sono stati concatenati corrisponda a quello con cui si presentarono oppure sia mera mistificazione dell’animo. Si sa qualcosa, forse, dei draghi, anche se non saremo noi ora qui a disquisirne. Ciò che conta in verità, talune volte, non è tanto la verità in sé o ciò che chi scrive abbia inteso dire, quanto piuttosto ciò che chi legge ha recepito. Sforzatevi quindi, per una volta, di non cercare il significato fuori di voi, ma dentro di voi, e non attribuitelo all’autore, ma a voi stessi. E se significato non v’è, lasciate che il vento spazzi via il fumo di queste parole vane, mentre la nebbia, che per un attimo, un solo infinito attimo rivelatore, si era diradata, torna a calare e a farsi densa.

Silenzio

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[Immagine da Weird Tales Magazine]

Un’altra notte. Lascio che i rimasugli del giorno si confondano col buio. Meglio che il silenzio avvolga con la sua potente magia le troppe parole del giorno.
Non so mai scorgere il momento in cui giunge … mi distraggo un attimo … e quando torno attento è già notte. Ed io so che è quello il momento in cui maggiore è il pericolo. Si aprono quelle barriere che separano i Mondi … e non si può mai sapere.
Provai un tempo a dare un’occhiata dall’altra parte ma fu invano.
Intanto, che ora si dorma!
Silenzio son già troppe le parole…

Shadow speaking

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Ho vagato per questa terra distorta per non so più quanto tempo. Mi sono perso. Non di spazio ma di tempo. Ripercorro strade ora dissestate, che rammento nuove. Vedo intorno a me ancora quei prati verdi che ora sono solo distese di rocce riarse, sassi e macerie. L’aria allora aveva un suo profumo. Sapeva di vita novella, sapeva di morte e di sangue, il profumo dei fiori, il buon cibo. O il freddo intenso dell’inverno ed il ghiaccio che tutto copriva. Ora invece è solo questa polvere che corrode l’anima. Il cielo ha riflessi di piombo. L’acqua che ancora scorre nei fiumi è vuota e mortale.

Di giorno mi riparo in un qualche anfratto, il sole che brilla lassù è insidioso e divora quel poco di vita che rimane. Contendo un po’ di ombra a forme di vita che non oso più definire umane. Le loro mutazioni sono così profonde che nemmeno Victor avrebbe potuto crearne di eguali. Eppure anche loro sono così per creazione umana. La demenza o la violenza estrema albergano nelle loro menti, ed il vivere, il sopravvivere, per me si fa ogni giorno più pericoloso. Pochi siamo rimasti, che possiamo definirci Umani. Pochi e non ci frequentiamo. So di non essere solo, so che qualcuno, continuamente mi spia. Dormo poco. Di giorno, tenendo sempre l’orecchio attento. Ma non è con quello che percepisco la presenza di coloro che mi spiano. Qualcuno mi tiene d’occhio. Sento la sua curiosità farsi largo nell’obbedienza. Un filo doppio ci lega, o il raggio di quella che una volta era la luna. Ecco sì. Quando la notte cammino, cercando vestigia di ricordi che un tempo erano la mia realtà, se guardo la luna, o anche solo un misero lampione che riflette la sua luce malata su un marciapiede lurido, è allora che sento quanto lui ed io siamo vicini, ci completiamo quasi.

Taccio allora, chiudo gli occhi, e con un respiro del cuore innesco l’onda che so che prima o poi lo travolgerà. Perchè io non ho mai detto di essere solo un Uomo. Io sono colui che sono. Un tempo eravamo in tanti e gli uomini ci temevano. Quello era il tempo della gloria. Poi venne il tempo della macchina, che distrusse tutto con i funghi enormi che si eressero ovunque. E noi fummo dimenticati. E fu l’oblio. I più di noi scomparvero, come scompaiono i ghiacciai per il troppo caldo.

Io resto. Io sono ancora qua.

Osservatore – Memories

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Camminava nella notte. Solo. Senza esitazione. Lo rivedo ancora con gli occhi della memoria, quegli occhi che non sono riusciti a chiudermi. Era come un’ombra nel buio. Nulla più. Il passo deciso. Il pastrano scuro toccava quasi per terra, un cappello a larghe falde. Il suo profilo contro il cielo puntato di stelle. Niente esitazione nel rivolgersi a Sorella Luna. Come rinvigorito si lasciava fasciare dai sui raggi. Capii solo all’ultimo che cosa stesse per fare. Capii quando lo vidi afferrare uno di quei raggi, saggiarne la tenuta, e poi issarsi su. Lo vidi salire poco a poco e farsi sempre più piccolo. Non si volse mai indietro, ma per certo sapeva che ero là e lo stavo osservando. Aveva sempre saputo tutto.

Poi, ad un certo punto, mi accorsi di non saperlo più distinguere, tanto in alto era salito, tanto lontano da me si era portato. Non seppi mai dire con precisione quando fu che, per l’ultima volta, potei riconoscere la sua sagoma. Eppure così avvenne.

Fu così che me ne andai. Non tornai sui miei passi. Andai oltre come Lui avrebbe voluto. Ora, a volte, guardo la Luna. Rammento, sorrido … e taccio.