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Chronicles of Novgorod 1.

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Fuori non si può stare. I reietti che vivono riparandosi negli anfratti, in quello che rimane della vecchia città, non hanno più una forma che possa dirsi umana. Il più piccolo refolo di vento ancora riempie l’aria di una polvere biancastra e maligna. Una polvere che brucia dentro, una polvere che ha rimodellato e rimodella ancora le forme, con l’estro di un pittore ubriaco che, abbagliato da incubi demoniaci, dipinge esseri mutanti che poco hanno a che fare con l’armonia primigena.

E’ per questo che noi ci siamo ritirati, nascosti come topi nelle nostre tane. Abbiamo trovato riparo in questo reticolo sotterraneo fatto di cunicoli e caverne. Aria stagnante e acqua marcia. Nessuno di noi ricorda più le sfumature che assume la luce del sole al tramonto, o le gocce di rugiada che imperlano l’erba delicata all’alba di un nuovo giorno. I più giovani addirittura non ci credono nemmeno, pensano siano solo un mito, un vano favoleggiare.

Qua sotto abbiamo trovato la salvezza. Ma il prezzo da pagare è stato alto. Io stesso non dovrei essere qui ora a scrivere queste righe eretiche. Se mi scoprissero sarebbe la fine, il nulla. Nessuna pubblicità nessun processo o condanna. Non è permesso, anzi, non è previsto. Gli Eletti, per mezzo di un loro inviato, semplicemente provvederebbero a delocalizzarmi, cancellando ogni mia traccia da questo piano dell’esistenza. Sì, so bene che esistono molti diversi piani su cui questa nostra realtà – o una simile – si fa viva, ma questo è l’unico cui io ho accesso, per questo, in fondo, ci sono così affezionato! E tuttavia, ben conscio del rischio, sono qui a scrivere e non so perché, che cosa mi spinga in realtà. Forse soltanto perché un giorno trovai per caso, incisa nella parete di una di queste gallerie, un parola. Un’unica misera semplice parola che segnò la mia vita: LIBERTA’. Tracciata in modo debole ed incerto, eppure era là, ed io a leggerla, altrettanto incerto, come un bimbo che articola le sue prime sillabe. Provando a mettertele insieme, una ad una, cercando di ottenere un suono unico, compiuto, suono fino ad allora ignoto. Ed ancor più ignoto il senso. Quando tornai a cercarla, il mattino dopo, stentai a riconoscere il luogo. Diversa la geometria del cunicolo, diverse le diramazioni delle gallerie. Nessuna scritta, solo una parete liscia e fredda. Integra nella su inviolabilità.

Non ne parlai con nessuno ovviamente. Nessuno mi avrebbe ascoltato, non è permesso. Nel nostro mondo ristretto, basato sull’assoluta uguaglianza, nessuna novità è ammessa. La nostra stessa sopravvivenza, ci hanno sempre detto gli Eletti, si basa sul flusso continuo costante ed immutabile del nostro lavoro e del nostro pensiero legato ad esso. Ogni divagazione, ogni alternativa, deve essere stroncata alla radice, perché ogni distrazione porta all’errore, e l’errore di uno alla catastrofe di molti, forse di tutti …. O qualcosa del genere. Non è mai molto chiaro.

Il mio lavoro è osservare. Osservare il mondo là fuori e riferire ogni mutamento. Osservare senza pormi domande, come uno strumento inerte, come una lente puntata verso l’esterno. E forse un tempo ero proprio così. Non ho memoria del mio passato. Se mi volto nel tempo e faccio nella mente un passo di lato per avere una prospettiva migliore, ecco, io vedo solo un breve tratto di una strada che si perde in un orizzonte lattiginoso. Una strada che però, ogni volta, mi appare meglio definita più profonda, riscattando attimi all’oblio.